Storia di un lunedì dell’angelo di Francesca Anili
Tra il paese vecchio e quello nuovo c’era un declivio punteggiato di ulivi e di aranci e correva una strada, inerpicandosi in tornanti per raggiungere, in alto, il dominio di tutta la costa sottostante; al tramonto, da lassù, la visione abbagliante del mare imperlato di luce ed il sentore della brezza salmastra che si confondeva con gli effluvi e gli aromi pungenti della macchia mediterranea, abbarbicata al dirupo.
Tra il paese vecchio e quello nuovo c’era una torre costiera di avvistamento, una massiccia costruzione circolare di pietra; una volta si elevava sulla terra di nessuno dove regnavano la malaria, e la paura delle incursioni saracene; ora domina la terra di nessuno -e di tutti- del nuovo agglomerato fatto di costruzioni abusive, del non finito, di muri nudi di mattoni e di pilastri impietosamente protesi verso il cielo che si contorcono e si spintonano per conquistare un angolino di mare.
Tra il paese vecchio e quello nuovo c’è un piccolo cimitero disteso sul declivio, una pausa quasi incongrua, con la sua struttura regolare a scacchiera, il doppio filare rettilineo di cipressi che incornicia l’ingresso, nel susseguirsi organico e disordinato della vegetazione e del costruito; e,dentro, la memoria di una storia lontana eppure presente di distruzione e di morte, di una terra improvvisamente instabile e furiosa, e gente in fuga tra le macerie e la polvere. Poi,faticosamente, era iniziata la ricostruzione, ma ormai in tanti avevano iniziato a scendere verso la costa, dove il treno che passava ogni giorno, dava l’illusione di essere un po’ meno lontani dal mondo ed alimentava la speranza che un giorno, forse, qualcuno ci sarebbe salito, e sarebbe andato lontano…
Tra il paese vecchio e quello nuovo ci sono, allora, tante storie interrotte, di famiglie che hanno abbandonato le loro abitazioni pericolanti, man mano invase da muschio, erbacce, arbusti insinuatisi nelle crepe dei muri, come se la natura volesse continuare l’azione disgregatrice iniziata dal terremoto, costruendo una cortina di vita vegetale là dove aleggia sentore di morte e di abbandono; ma anche anziani, pochi ed ostinati, che si sono rifiutati di abbandonare la casa che li ha visti vivere, la terra che ha nutrito loro e i loro figli, e sopravvivono caparbiamente alla vita di ogni giorno tra questi muri e queste strade abitate dal silenzio.
C’è un giorno, però, in cui il paese vecchio e quello nuovo si incontrano, e le stradine sconnesse di acciottolato, i muri scrostati e lesionati tornano a risuonare di passi e di voci di tutte le generazioni; è il Lunedì dell’Angelo, quando la tradizione vuole che le famiglie riaprano le vecchie case ancora agibili e si prepari un pranzo di festa, invitando i parenti anziani rimasti lassù ed altre famiglie di amici o di parenti; poi s’imbandisce la tavola e si pranza sull’aia, o nelle vecchie stanze nuovamente invase dal sole; c’è anche chi si accampa nei pressi della propria casa ormai ridotta ad un rudere e, sempre in buona compagnia, consuma al riparo dei propri muri le pietanze già preparate e tenute in caldo; poi, inizia lo scambio di assaggi tra le varie comitive, i giri di perlustrazione di gruppi di adolescenti, alla ricerca degli amici del cuore invitati presso altre mense, ed i giochi sfrenati dei bambini, che presto intessono per tutto il paese un’unica rete di festosi richiami o di rimproveri. Tutto si svolge secondo quella strana legge per cui vicini di condominio o di pianerottolo, che per tutto un anno hanno vissuto nella più completa estraneità ed indifferenza, una volta giunti quassù ritrovano il senso di una familiarità disinibita, e gli antichi vincoli di sangue o di amicizia che qui si erano perpetuati per generazioni.
Questo Lunedì, Giuseppe si è svegliato prima di tutti a casa, ha silenziosamente sceso le scale ed è salito al paese in motorino. Vuole preparare una sorpresa per Elena, e sa che questo è l’unico orario per passare inosservato, prima che incominci la fila di macchine, il trasbordo di teglie di pasta al forno e fascine di legna, l’armeggiare per pulire ed accendere i camini. E’ circa un anno che lui ed Elena stanno assieme, esattamente dallo scorso Lunedì dell’Angelo, quando, complici il vino ed i racconti che s’intrecciavano da una tavolata all’altra, avevano trovato il modo di appartarsi in quello che doveva essere stato un orticello, sospeso sul dirupo. Si erano raccontati tante cose, tutte quelle che quotidianamente, costretti dalle leggi della comitiva, non avevano mai avuto il tempo di dirsi, poi si erano dati un bacio.
Giuseppe lo ricorda ancora come fosse oggi, tutti gli odori, e il vento leggero, e laggiù il mare a perdita d’occhio e quel senso di vertigine, di sentirsi inghiottito in tanta immensità; perciò ha deciso che, tra poco, tornerà con Elena in quell’angolino, e l’aiuterà a trovare, nascosta sotto una pietra, quella scatolina con dentro un anellino piccolo piccolo che ora sta per sistemare, come ha visto fare una volta in un film. E’ un ragazzo romantico Giuseppe, forse un po’ fuori dal tempo rispetto a tanti suoi coetanei; anche a scuola, la professoressa di Lettere dice che ha “una sensibilità superiore ai suoi 14 anni, un modo profondo di vedere e di sentire le cose”.
Il motorino, l’ha parcheggiato all’inizio del paese, per evitare di rovinare le sospensioni sull’acciottolato; poi, si è inoltrato per le stradine addormentate verso quel posto scolpito nella sua memoria. Mentre procedeva, si è sentito pervadere da un senso di straniamento, come se quel luogo non fosse quello che conosceva, quello che tutti i suoi ricordi delle Pasquette festeggiate in allegria gli rimandavano sin dall’infanzia. Si è fermato e si è messo ad osservare attentamente l’intorno, cercando se possibile di trattenere il respiro per non contaminare il silenzio vergine di quell’ora. Allora si è accorto che, davvero, tante cose erano scomparse, come cancellate ai suoi occhi da una mano misteriosa: uno stemma consunto su di un portale, un balconcino in ferro battuto, le due nicchie sulla facciata della chiesetta, in alcuni casi addirittura il piano superiore di un’abitazione o una facciata intera, che aveva lasciato aperti ed indifesi gli ambienti interni della casa, ed il senso di vertigine di una scala sospesa nel vuoto.
Il paese è piccolo, ma senza tanti elementi di riferimento a Giuseppe sembra sterminato e inesplorabile; con uno sforzo di memoria, per colmare con la forza del ricordo le tante lacune provocate da questo strano fenomeno, riesce però ad orientarsi e ad arrivare all’orticello suo e di Elena; e lo trova, miracolosamente, intatto.
Sul mare, da lassù, vede una chiatta straripante di gente oscillare pericolosamente tra le onde.
A riva, un po’ fuori dall’abitato, si erano riuniti in tanti ad osservare una scena già vista tante volte in tivù ed ora materializzatasi davanti ai loro occhi: i motoscafi dei soccorsi che fanno la spola tra quel relitto che ancora miracolosamente sta a galla e la spiaggia, portando ogni volta in salvo tante facce scavate, tanti occhi sgranati ed increduli, tante mani che stringono, per dare protezione e coraggio, tante altre piccole mani.
E’ davvero difficile, in questo strano Lunedì dell’Angelo, pensare alle teglie di pasta al forno,con tutte queste facce, questi occhi, queste mani.
Giuseppe ripensa a quando era morto il nonno. Lui aveva 5 anni, e aveva pianto tutte le sue lacrime di bambino tradito e abbandonato, Aveva pianto fino a che la mamma non gli aveva raccontato che il nonno, è vero, non era più con loro, era andato molto lontano, ma lui poteva chiamarlo vicino a lui ogni volta che voleva. “Se chiudi gli occhi e provi a ricordarlo” gli aveva detto “il nonno capirà che lo pensi, e verrà da te mentre dormi”. Da quel giorno Giuseppe ogni sera, prima di addormentarsi, ingaggia una lotta ostinata con la dimenticanza, per ricomporre nella memoria l’immagine del nonno dispersa nei territori dell’oblio. Non sempre l’operazione riesce: a volte è la linea del naso che gli sfugge, altre volte il tassello mancante è il timbro della voce, o il modo di incrociare le mani una sull’altra; allora il risultato di questo puzzle gli appare come un’immagine sbiadita della figura del nonno, perde di vita e di concretezza per divenire evanescente e svanire infine nella nebbia del sonno. Giuseppe pensa che forse la stessa cosa succede per i luoghi e le città, che hanno bisogno di essere pensate amate vissute per sfuggire ad un’inesorabile dissoluzione.
Sembra di sentirne il rumore, nel silenzio che quassù regna, come di un tarlo che si attacca agli stipiti dei portoni, ai balconi, ai muri delle case, e li corrode senza pietà.
A riva, mentre si svolgono le procedure di primo soccorso, d’identificazione e di schedatura dei profughi sbarcati, sono in tanti a sentirsi invadere dalla partecipazione, dalla commozione e dalla pena per le storie di disperazione e di fame che ognuno di quei volti reca indissolubilmente impresse; e come per un transfert, una magica empatia, qualcuno sente su di sé il freddo delle notti passate in mare, la stanchezza e la paura di addormentarsi, e la stretta disperata delle madri ai loro bambini. Il sindaco ed il comandante dei Carabinieri discutono sulle possibilità di dare un ricovero immediato a tutta questa gente – in paese, oltre alle scuole, le strutture pubbliche disponibili sono davvero poche -; ed a qualcuno vengono in mente la chiesa grande e la sacrestia del paese vecchio, ancora in buone condizioni ed ogni giorno aperte e ripulite grazie al devoto impegno di un anziano abitante. La proposta viene vagliata ed accettata; poi, superata l’emergenza, bisognerà trovare un’altra soluzione; per il momento, ci si organizza per recuperare e trasportare brandine, stufette e coperte, mentre i Carabinieri provvedono a smistare ed a trasportare, in ordine di urgenza -prima donne e bambini- i profughi al loro primo tetto in terra straniera.
E’ uno strano corteo quello che Giuseppe vede arrivare, dall’alto della sua postazione:camionette della polizia cariche di gente, furgoni traboccanti di masserizie, e, al seguito, le prime macchine di compaesani arrivati ad allestire le proprie mense, ma anche per curiosare e, se c’è bisogno, per dare una mano. E’ ancora presto, ma pare che tutti si siano dati voce: la fila delle macchine aumenta, inizia il trasbordo di teglie, buste e panieri, l’invasione del sole nelle case appena aperte ed il riverbero dei raggi sulle tovaglie candide appena stese, il fumo inizia ad uscire dai camini mentre si procede a stappare bottiglie di vino e ad affettare pane, salame e formaggio. Inizia anche, e man mano s’infittisce, la processione verso la chiesa grande trasformata in accampamento, per portare agli stranieri spaesati e sbigottiti un primo ristoro di cibo e di vino, e magari per invitarli, a gesti, alla propria mensa.
Giuseppe sa che non racconterà mai a nessuno, neanche ad Elena, di quello che ha visto: che,mentre le macchine avanzavano per i tornanti e qualcuna già parcheggiava all’inizio del paese,come da una nebbia profonda sono riemersi i muri, le facciate, le ringhiere ed i portali scomparsi; ed ora lui è lì che passeggia con Elena, nel trambusto di corse e di giochi di bambini di lingue diverse, e li osserva come se li vedesse per la prima volta, quel balconcino di ferro battuto con l’immagine di due cuori ed una colomba, forgiato forse da un artigiano innamorato, e quello stemma sul portale che una volta i contadini, passando da questa strada, salutavano toccandosi con rispetto e devozione la punta del cappello; li osserva e pensa che tutte queste cose non devono sparire, che ogni giorno dovrebbe essere come oggi, che è bello il colore del sole sulle pietre di queste case… e mentre gli occhi e la mente si affollano di immagini da fotografare e da ricordare, si accorge che lì, al primo piano di quel palazzo col cortile, c’è una finestra che non ricordava, anzi è proprio sicuro che lì non c’è mai stata.
E’ una finestrella strana, stretta stretta e che termina in alto a punta, ai lati ci sono due colonnine e tutto attorno come un ricamo di pietra e di luce.
Si volta verso Elena, e vede che anche lei sta guardando verso quella finestra, protesa come per carpire il segreto delle lontane terre da cui proviene; poi lo guarda sorridendo, gli stringe la mano, ed assieme corrono a nascondersi nell’orticello sospeso sul mare.