Narrativa

Il calare della sera tra pacatezza e ricordi deformati

Il presente lavoro del 2017 è in parte tratto dai temi esaminati nel libro I racconti della sera, testo che per la sua relativa brevità trascrivo per intero. Ideato come articolo richiestomi da una rivista locale sul modo di vivere l’estate negli anni ’60, è diventato per me un’occasione per ricordare la mia infanzia, con il rischio di “essere uscito fuori tema” (come si diceva un tempo), preso dalla foga, dall’entusiasmo e forse soprattutto dalla tentazione di fare anche qualche consuntivo nella mia vita… In effetti la traccia indicata mi era sembrata riduttiva, mentre io sentivo il bisogno e l’esigenza di inserire l’argomento “ricordi estivi” in un contesto più generale (con funzioni, per me anche catartiche e liberatorie), che è non solo quello dei ricordi infantili, ma è soprattutto il racconto di un mondo veramente diverso da quello attuale, e non solo “deformato” dalla nostra memoria…

Così le brevi note di ricordi si sono trasformate in un lungo racconto di immagini ed eventi sgorgati con sentimento da un animo “pieno di ricordi e nostalgia…”

<Il declino della vita porta via giovinezza entusiasmo vigoria fisica ma aggiunge pacatezza sobrietà gusto equilibrio e a volte saggezza; sposta angolazioni e deforma le prospettive: attenua i colori smorza i toni sonori e visivi; fa intravedere meglio il calare della sera; anche se fa aumentare l’indignazione per le ipocrisie, le illegalità, i diritti calpestati, le ingiustizie interpretati sempre come normalità

Anch’io non mi sottraggo a questa legge,anzi per contrasto diventa grande il desiderio di raccontare ai giovani, soprattutto ai nipotini, e far loro conoscere un mondo che non c’è più, il mondo in cui sono cresciuto e che oggi non esiste più, travolto da accelerati e veloci ritmi tecnologici…

Il palcoscenico e lo sfondo dei racconti è la terra dolce dell’infanzia, trasfigurata e contaminata dai colori dei ricordi, la stessa che s’interseca e s’intreccia con l’odierna terra amara del mancato riscatto… La fascia di terra, che, costeggiando il mare ionico, snocciola sull’assolata statale 106 paesi e villaggi dalle identità stravolte, come grani di un rosario infinito, con le loro orgogliose miserie, gli antichi problemi, le dignitose bellezze, il fiero isolamento, le atmosfere antiche e indisciplina… Gli occhi rassegnati dell’utente abituale, per necessità o piacere, hanno visto poche trasformazioni sostanziali negli ultimi decenni, solo ininterrotti cambiamenti di facciate e colate continue di cemento…

Tutti diversi ma forse uguali, questi paesi subiscono solo i danni della loro posizione geografica, al centro di quel mare Mediterraneo, che evoca invasioni, assalti, guerre di religione, per finire agli sbarchi di chi cerca fortuna tra ultimi e sfortunati… In questi luoghi invidiabili per le suggestioni e i paesaggi, l’incontro di civiltà diverse ha prodotto una stratificazione culturale unica (ignorata dai più)… luoghi della memoria, simbolici, metafore della vita varia e cangiante, ma anche luoghi isolati ed emarginati, affatto sfruttati, per storia, per mancanza di strutture, per precise volontà e scelte politiche, e condannati all’emarginazione e al sottosviluppo, senza speranza…

Idea insomma non sfruttata per la perifericità che caratterizza, in questi luoghi, ogni esperienza umana e professionale, limite geografico che racchiude una limitazione culturale, che agita da tempo questa parte del Meridione, oggetto di attenzione oggi solo da parte di tutti gli extracomunitari, che fuggono dalla loro miseria… ma anche, a livello di vita personale, un intimo legame di dolci ricordi, storici eventi, nostalgie di trasfigurate esperienze, all’ombra di un gelso e una colonna dorica, e sullo sfondo il canale e la sacra tetracsis…

Quando la sera volge al termine, la notte è prossima in agguato… ma una nuova alba è pronta per illuminare la vita… i nonni vanno via, ma lasciano ai nipoti la testimonianza di chi ha vissuto altro tempo, altri eventi, altri modelli di vita… raccontano loro un mondo e una cultura, che non esistono più, resettati e divorati dai nuovi moloch… offrono in eredità affetti e legami con le radici familiari e culturali, con la speranza che possano, tra grosse trasformazioni e ritmi accelerati, avere la predisposizione e la volontà di conservare e valorizzare la memoria personale e collettiva e le proprie radici, perché senza un passato non si può organizzare un presente né tantomeno progettare un futuro… Ed ecco che le storie dei “racconti della sera” si saldano e si armonizzano con i racconti di “nonno mi racconti una storia”…, sulle ali leggere dei ricordi, prima che la parola fine chiuda “l’ultimo racconto”…

Mio nonno per bisogno era partito solo, con un piroscafo da ultima speranza, lasciando sola in pianto la moglie disperata, sul far dell’alba mai sbiadita nei loro ricordi con due figli femmine in tenera età… Per diversi anni mandò lettere e soldi con la posta o amici, da padre e marito premuroso, per altri ancora cercò con forza di richiamare nella lontana terra dei canguri tutta la famiglia, poi a poco a poco chiuse ogni contatto per equivoci e altre diverse incomprensioni… Era partito convinto di fare fortuna con gioia sentimenti e valori per mantenere come altri l’intera famiglia, si perse poi con la lontananza o altro (ma chi può mai saperlo!)… È una vicenda ormai così lontana passata al vaglio di amici e parenti, un buco nero nella storia minimale della mia famiglia e della sua sorte crudele per forzata dimenticanza e cinico totale grave abbandono…

Comunque l’uomo di cui io porto volutamente il nome è stato sempre in famiglia un simbolo, per gli adulti i giovani e i bambini, di chiaro tradimento per alcuni e di fascino esotico per altri, oggetto di continuo odio viscerale e insieme di amore e voglia di vederlo tornare. Una storia comune a intere generazioni di persone che cercano di cambiare il destino avverso e analoga condizione, costrette a mutare oppure a reinventare abitudini comportamenti e gusti, simili ai carichi delle moderne carrette del mare… Il tempo e la morte dei diretti attori hanno lenito rabbia odio e dolore per una storia che ha coinvolto anche altre inconsapevoli e incolpevoli persone, nate da un secondo rapporto d’amore… Tanti son tornati anche per poco, per nostalgia e amore a riveder la terra dei padri d’origine e quella natia, il nonno mai senza un perché, forse smarrito in quel mare grande che lo ha diviso e per sempre distratto.

La sua storia è la storia di tutti, di chi è partito e di quelli rimasti, la nostra memoria la storia collettiva che ha segnato condizionato e stravolto intere generazioni, il loro progresso la voglia di libertà e la dignità compromessa. E’ la storia di uno come tanti calabresi costretti a cercare, nel periodo fra le due guerre mondiali, fortuna in Australia o in America per poter sopravvivere e far sopravvivere le rispettive famiglie, spesso numerose: dalle lettere e dagli appunti si ricavano elementi che colpiscono la mente e il cuore, una storia emblematica di miseria, di nostalgia, di frustrazioni, di disadattamento… Le terre d’oltreoceano vengono definite “terre maledette massimamente”, quelle terre che offrono a tutti opportunità di successo e che non tutti però riescono, per sfortuna o incapacità, a sfruttare…

Il passaggio troppo veloce da una realtà agro-pastorale con i suoi riti particolari e le sue tradizioni ad una civiltà industriale, dai ritmi accelerati e avanzata sul piano tecnologico, ha distrutto un mondo fondato sui sentimenti di solidarietà e di rispetto per gli anziani ma anche per le donne e i bambini, insieme ai valori che gli stessi veicolavano. Erano rapporti privilegiati basati su passioni e sentimenti comuni e condivisi,

“una vita vissuta con genuina semplicità, tutte le mattine che incoraggiavano lo sforzo di dare un senso alle giornate fatte di lavoro di attesa di speranza, tutte le domeniche che vestivano il tempo dei colori della festa sacro riposo da dedicare a Dio e all’ozio ristoratore, tutte le primavere che rinnovavano la speranza con il Cristo Risorto tra le vie del borgo nell’esaltante geloso rito d’altri tempi, tutte le volte che il rintocco delle campane richiamavano al senso di comunità i fedeli della Contrada uniti nella preghiera e nella conversazione leggera sul sagrato dell’amata Chiesa… tutte le volte che i credenti invocavano Dio con la preghiera della perfezione aiutaci o Signore a trovare il coraggio nel pericolo, la prudenza nell’azione, la pazienza nel dolore, l’umiltà nel successo; una vita vissuta con genuina semplicità, tutti i giorni che portavano il silenzio degli spazi infiniti, i fiori e i miracoli della natura nell’aspra terra e il vento che accarezzava le foglie degli alberi là dove le nuvole andavano a riposare, tutti gli attimi che scandivano il tempo e svelavano antichi sentori di Assoluto, i ricordi seppure dolci nella memoria, le nostalgie che li assalivano con violenza e terrore e accordavano la brezza del mattino e il suono di violini il pianto di un bambino una goccia di pioggia e tutto ciò che segnalava la presenza di un Architetto grande e misterioso…”

La condivisione dei vari momenti della vita e quelli di aggregazione, che di stagione in stagione animavano la civiltà contadina, si manifestava con le affollate celebrazioni delle canoniche festività e la partecipazione sentita ai lutti del vicinato, attraverso “u cunsulu”, l’assistenza psicologica materiale e culinaria ai parenti prossimi nei primi giorni più dolorosi. Oggi non è più così e il rito della morte si svolge con ritmi e modalità diversi… tra lamenti neniosi rituali ed eguali cantano una vita che è già lontana… unico attimo di ‘grande’ dolore solo per pochi come da sempre, domani la vita offrirà un nuovo giorno, sacrifici e passioni sono già lontani trastulli terreni e inani per chi se n’è andato, in attesa di luce -chissà- e di vita oppure della fine di ogni desìo… Al rito legato alla morte, nel passato, si dedicava più tempo; oggi il minimo indispensabile! C’era una ritualità, nel portare il lutto, che era formale e sostanziale; oggi è ridotta all’essenziale, anche dal punto di vista legale: tre giorni appena di congedo per la morte di un congiunto… Sono state stravolte le motivazioni che hanno dato origine al rito -uguale sorte è toccata al matrimonio- solidarietà per i parenti del defunto -solidarietà economica per gli sposi-, trasformati in pure rappresentazioni, formali drammatizzazioni prive di adesione sostanziale, senza veri sentimenti…

Il ricordo di chi moriva rimaneva nel tempo attraverso i racconti degli anziani, i quali recitavano il ruolo della memoria storica della famiglia, del vicinato, dell’intero paese. L’oblìo di chi non c’era più diventava più lento; oggi si cerca di chiudere il conto, presto e velocemente sbiadiscono i ricordi… La comunità era più attenta e partecipava coralmente al rito, sospendendo le attività lavorative. Oggi c’è poca attenzione, solo pochi intimi, per breve periodo, partecipano mentre tutt’intorno la vita procede con i soliti ritmi veloci, tutti hanno i segni della fretta e dell’impazienza, nel volto nei gesti nel modo di presenziare… Alla fine del rito religioso tutti velocemente a salutare i parenti schierati in riga… e via di corsa… In poco tempo i familiari rimangono soli davanti alla Chiesa… soli con il fresco dolore e la salma per l’ultimo addio… Anche il matrimonio aveva il carattere della sentita partecipazione corale, in tutte le fasi significative e simboliche, secondo regole codificate dalla tradizione. Tutti i mesi erano buoni per sposarsi, tranne maggio e novembre. Il banchetto si preparava in casa, con l’assunzione di un cuoco ad ore, che rendeva a pieno il senso della famiglia dei rapporti parentali e della condivisione. Le famiglie degli sposi condividevano tutte le spese,la sposa portava il corredo, ma il vestito bianco per le nozze era regalato dalla suocera. Per affermare il carattere partecipativo dell’avvenimento, si usava presentare ai parenti il corredo, preparare il letto agli sposi, esporre i regali ricevuti in una stanza arredata per l’occasione…

I nonni erano strutturalmente delle figure carismatiche e punto di riferimento importante, da loro i nipoti ricevevano i primi rudimenti cognitivi ed etici per poter distinguere il bene dal male… Anche mia nonna ha svolto, con me e i miei fratelli, questo ruolo primario: famosi e immortali le favole e i fatti mitici che ci raccontava e che stuzzicavano la mia fantasia spingendola a fare viaggi fantastici e liberatori…

Mai dimenticati il popolare Giufà, descritto dalla nonna come un personaggio del paese, l’invidiosa maga Sibilla in lotta continua con la predestinata benedetta Maria madre di Gesù, gli improbabili viaggi in Aspromonte di Gesù con i suoi discepoli fra le pietre e le rocche della valle del Buonamico, e soprattutto le leggende legate ai Santuari della Madonna della Montagna a Polsi e della Madonna della Grotta di Bombile… E ancora mai dimenticata la sua cultura in tema di malocchio e le varie forme rituali di asciumico, per allontanare gli effetti malefici con preghiere acqua ed olio; il riferimento a Mata e Grifone, i giganti buoni e il ballo del cavalluccio, presenti in ogni sagra e festa locale, e la sua immensa ingenuità, come quando dinnanzi ai primi televisori, mia nonna non riusciva a capacitarsi, girando attorno all’apparecchio, come tante persone e animali potessero stare comodi dentro una piccola scatola metallica… E proprio attraverso i suoi racconti, che stimolavano e stuzzicavano i miei sogni, ho cominciato ad amare ancora di più e ad apprezzare il paese natio e l’intera regione calabra…

Come dimenticare poi tutte le estati passate con i miei cugini, esperti nelle attività e nei giochi di campagna, ad apprendere le strategie della caccia agli uccelli con la fionda e quelle più laboriose della cattura delle farfalle, strategie che richiedevano capacità di stare immobili nelle zone più frequentate dai colorati lepidotteri… Però tra i parenti predominava il sesso femminile: infatti le cugine superavano in numero di gran lunga i maschietti, per cui era giocoforza essere coinvolti nelle loro attività, che in primo luogo riguardavano il ricamo e la tessitura, finalizzate alla preparazione del corredo personale da portare in dote allo sposo. Il mio spirito curioso mi portava così a cimentarmi nei vari punti di ricamo, preferiti erano il punto a croce il punto a catenella e il punto erba, e soprattutto a provare tutte le fasi preparatorie che portavano alla tessitura e le sensazioni creative al telaio, quando facevo scorrere la navetta tra i reticoli tramati di fili, che s’intrecciavano con i movimenti controllati dei piedi sui pedali. La cugina più veloce in questo lavoro era Mela: i suoi movimenti rapidi nello sfilare la navetta e nell’intrecciare non erano diversi da quelli di un pianista ispirato nell’esecuzione di un brano di musica classica… Insieme poi a quelle in età di matrimonio, mi recavo ai vari santuari miracolosi, intrufolandomi tra le verginelle portate in processione alla Madonna per grazia ricevuta o per richiesta di aiuto nella cerca di un marito, attraverso un percorso, che portava dal mare alle colline dalle spiagge assolate alle asciutte fiumare ricche di agavi e oleandri, prima di arrivare in preghiera dinnanzi ai suggestivi sagrati…

Ogni ritorno alla casa natìa, ancora oggi, dinnanzi ai ruderi della vecchia casa e a un sempre vitale albero di gelso, è gioia nostalgia emozioni. L’albero in particolare è il punto di riferimento di tutte le mie emozioni passate e presenti, dai suoi rami si diramano le conoscenze le sensazioni le esigenze il senso della vita. Con il gelso è stato un colloquio continuo: rappresentava il piacere e gli aspetti più belli della vita, la dolcezza e le cose che la rendono interessante, il mondo della fantasia dove rifugiarsi e staccare dal trantran quotidiano… Per tanti anni, premio e regalo per le promozioni scolastiche ha significato il mio soggiorno al paese natìo: con gioia immensa, in quanto rappresentava il mondo dell’evasione e delle coccole da parte di tutti i parenti, e il periodo di libertà assoluta, lontano dai giusti controlli materni…

Al centro della contrada il Canale, la fontana che captava, con l’antica tecnica del catuso, l’acqua di una ricca sorgente del posto, messa a disposizione di tutta la collettività. La strategicità della sua posizione lo rendeva importante e lo trasformava nell’agorà della contrada, dove non solo si attingeva l’acqua per tutti i bisogni, con recipienti a mano oppure con i barilotti trasportati dagli asini, ma era occasione di scambi culturali sociali di informazioni e notizie dal mondo, che giungevano con i tempi lunghi e con l’eco di fatti epici: la crisi di Suez acquistava i caratteri e l’epicità della guerra di Troia; Bruno ‘u murcu, il saggio della comunità, che andava in sella di un asino annualmente al Santuario di Polsi nell’inaccessibile Aspromonte, agli occhi dei bambini come me appariva con il piglio guerresco di El Cid in partenza per la guerra contro i Mori… Gli asini, in calore, o come dicevano gli adulti con la mosca al naso, nel frattempo si scambiavano con vivacità i ragli d’amore, rischiando di rompere il carico e creare scompiglio, spettacolo gradito auspicato e a volte favorito dai più piccoli… Il Canale era il luogo preferito di noi ragazzi, sempre alla ricerca di nuovi giochi e scherzi da sperimentare su vittime umane animali e vegetali. Il preferito era quello di svuotare, aprendo una saracinesca di chiusura della grossa cebbia, una vasca collocata in pendenza rispetto alla fontana, che raccoglieva per caduta naturale l’acqua non utilizzata del canale in continuo scorrimento; la vittima era il proprietario dell’orto sottostante, ’u surdu ‘i Francu, che si vedeva all’improvviso arrivare una notevole massa di acqua, incontrollabile, che letteralmente allagava il terreno e copriva le piantine allineate con cura. Irripetibili le espressioni e le reazioni del malcapitato. Altre vittime predestinate erano le galline e le pecore per la loro natura tranquilla, un po’ meno le capre che reagivano con violenza…

In contrada, il nostro arrivo stravolgeva le tranquille abitudini delle galline fino al punto da far loro depositare le uova in posti diversi dal solito catoio, il che inizialmente nella nonna procurava preoccupazione per l’ipotizzata improvvisa loro sterilità, ignorandone le vere cause…Nello spiazzo davanti al canale si svolgevano anche le attività di lavaggio della biancheria, dal bucato quotidiano al rito del lavaggio straordinario della dote, in alternativa a quello che normalmente avveniva nelle fiumare non ancora inquinate, mentre la zia Antonietta intratteneva l’uditorio con le barzellette i motti gli scioglilingua e la lingua in codice, nella quale era particolarmente versatile (ogni parola veniva velocemente scomposta in sillabe fatte precedere da prefissi vari, se ma te fa, per cui la frase “Carlo gioca al pallone” poteva diventare “seca serlo segio seca seal sepal selo seno” fra l’ilarità generale)…

La raccolta delle more rappresentava l’appuntamento annuale per eccellenza del sottoscritto, insieme ai giovani parenti alla moglie e ai figli: l’escursione si concludeva nello spiazzo del canale, con le magliette e le mani insanguinate nel tentativo di pulirle utilizzando le more rosse ancora acerbe. Il gelso è sempre lì, forte e resistente al tempo e alle intemperie: colpito e lesionato anche da un fulmine, è sempre rigoglioso, mentre tutto intorno è degrado, casa terreni viottoli e strada. Le more sempre dolci; la loro dolcezza rappresenta nel mio animo la dolcezza dei ricordi, l’innocenza dell’infanzia, la nostalgia di un tempo semplice che non tornerà mai più, le corse sugli asini da noi incitati come stalloni arabi, i giochi infantili, spesso crudeli quando venivano coinvolte galline pecore e za frate, le povere lucertole alle quali veniva staccata la coda, non senza prima che i sadici persecutori avessero recitato la formula dello scongiuro: non fu eu non fu eu, ma fu u cani du iudeu, non fu diu non fu a madonna, ca fu u diavulu cu i corna…(non sono stato io, non sono stato io, ma è stato il cane dell’ebreo, non è stato Dio né la Madonna, ma è stato il diavolo con le corna…)

Diffuso nella zona era un gioco dalle origini antichissime, u rollu che richiedeva abilità occhio destrezza e forza di polso…U rollu era la forma del formaggio stagionato, la pezzotta che, arrotolata nello spago con una estremità del gomitolo legata al polso del giocatore, veniva lanciata su un percorso abbastanza lungo, da coprire per vincere con il minor numero di tiri. A seguito delle bitumazione delle strade, il formaggio successivamente venne sostituito da una forma similare di legno per evitare di danneggiare il prezioso alimento. La posta in palio era lo stesso formaggio. Anche la morra e u patroni e sutta, con le loro silenziose o palesi e rumorose schermaglie tra giocatori, che sottendevano un modo di vivere una particolare civiltà contadina dai toni primitivi e ancestrali, erano i giochi prediletti in quelle contrade: rituali nel periodo delle feste di fine anno, ma rispolverate anche d’estate con l’arrivo degli amici emigranti. Il linguaggio verbale e mimico usato dai contendenti, che provocava spesso risentimenti e alimentava o riapriva vecchi contenziosi, affascinavano noi ragazzi, che cercavamo inutilmente di inserirci da protagonisti nel circuito ludico degli adulti…

Ogni sera parenti e amici si ritrovavano insieme dopo cena, a rotazione nelle abitazioni di tutti, per darsi consigli per scambiare impressioni ma anche per recitare il Rosario, animati da una fede semplice e duratura. Era questa un’attività che mi incuriosiva, anche se non capivo a pieno il suo significato e la sua ritualità, tanto che spesso insieme ai compagni di gioco creavo situazioni di disturbo, sfidando le occhiatacce, soprattutto della zia Mela, che teneva molto all’atmosfera ieratica e sacrale del momento. Le intenzioni erano alte: si pregava per far cessare una guerra, anche se gli echi arrivavano attutiti e con i tempi lunghi, si pregava per la pace fra i popoli, si pregava per allontanare dagli uomini il male e la cattiveria. In questo periodo entra prepotentemente nella mia vita e nelle mie abitudini la radio…

Il suo ascolto mi faceva sognare. Attraverso bravi radiocronisti riuscivo a seguire, sforzandomi di visualizzarle ad occhi chiusi, tutti gli avvenimenti sportivi e musicali più importanti. Il 1960 era stato un anno importante per lo svolgimento delle Olimpiadi a Roma, ma anche per le annuali corse ciclistiche più importanti, il Giro d’Italia e il Tour di France. Con l’orecchio incollato alla radio, anch’io ho corso, in cerca di un mio primato, i 200 metri con Berruti e ho pedalato pure con Bartali Coppi e Gimondi…

Tutte le attività della contrada mi incuriosivano e mi attraevano a tal punto che venivo coinvolto nella loro esecuzione. Tra le principali l’allevamento e la lavorazione del baco da seta, a nutricata che richiedeva cura e attenzione nei vari passaggi, che avevano nomi curiosi e arcani, di un ciclo che durava circa 60 giorni, dalla cura dei bozzoli e dalla raccolta quotidiana delle foglie di gelso bianco, unico loro alimento, fino all’ultima fase della formazione delle preziose matasse… Altra attività familiare era quella della lavorazione dei fichi: si preparava una struttura in zona assolata su cui poggiare le ampie cannizze che accoglievano giornalmente i fichi raccolti per l’essiccatura naturale; ogni sera gli ampi canestroni venivano riparati in casa per difendere i fichi dall’umidità della notte; infine il prelibato frutto veniva lavorato, i fichi migliori venivano farciti con mandorle e noci e infilati in sottili stecche di canna, raffiguranti bambole crocette o altre figure, secondo ricette antiche gelosamente custodite. Oggi questo tipo di lavorazione è quasi scomparso, sopravvive solo in poche isolate zone rurali, e l’assaggio di questi prodotti hanno ancora la forza di riportare con dolcezza il gusto e i nostri sensi a tempi lontani.

In pratica in campagna i contadini utilizzavano o riutilizzavano tutto ciò che la natura offriva, niente veniva sprecato niente veniva buttato,gli avanzi venivano consumati dagli animali allevati. Anche le foglie del ficod’india venivano utilizzate nell’alimentazione degli animali,maiali e capre soprattutto: le stesse venivano bruciacchiate sulla fiamma per eliminare le diffuse spine e successivamente affettate e rese commestibili… Una delle specialità diffuse era la calia, i ceci abbrustoliti che richiedevano una serie di passaggi essenziali: la scelta della sabbia nella quale venivano lavorati per contatto, l’uso di una capiente padella, attenzione per i tempi per evitare che il croccante legume si bruciasse…

Altri due appuntamenti fissi mi legavano alla zona: la vendemmia di un nostro piccolo vigneto coltivato da un parente e la macellazione del maiale in contrada Cavaleri presso altri affettuosissimi parenti, nel periodo tra Natale e Capodanno. Due attività rituali che avevano come tali il carattere della sacralità di ogni rito, finalizzato all’aggregazione, alla partecipazione collettiva, allo scambio reciproco di assistenza, alla formazione di vere specializzazioni di settore. C’era l’esperto della pigiatura dell’uva nel palmento a piedi nudi con tecnica rotatoria e danzante, l’addetto alla pressa manuale che sapeva valutare i tempi tra una spremitura e la successiva, ma anche l’abile ad infilare nella giugulare del maiale, per limitarne la sofferenza e l’agonia, con preciso colpo apposita lama, e ancora i capaci depilatori che preparavano alla perfezione il suino alle successive operazioni. Il lavoro finale era di competenza prettamente femminile: tra chiacchiere pettegolezzi e curiosità le donne preparavano, con veloci e abili mani, composti pieni di grasso e tante salsicce soppressate e corposi capicolli. I matrimoni di parenti diventavano ulteriori occasioni di incontro tra consanguinei ed amici, che festeggiavano gli sposi nei cortili nelle aie o in campagna sotto gli alberi, attrezzati e addobbati alla bisogna, tra balli e pranzi a base dei forti menù locali, ricchi di carni polpette e condimento, preparati dal cuoco specializzato che offriva i suoi servizi a pagamento. Tutte le fasi di queste attività solleticavano in noi ragazzi la curiosità e la voglia di emulazione, non sempre gradita agli adulti, che vedevano in questi interventi spesso solo possibilità di fare danni, anche irreversibili. A noi erano riservati i lavori più semplici, come tagliare l’uva, portare la legna per sostenere il fuoco su cui bollivano grossi pentoloni di stagno, montare con un bastoncino il sanguinaccio per evitare che coagulasse, assistere da lontano alle operazioni di cucina in attesa di avere comandi e ordini dagli adulti. Atmosfere d’altri tempi, diventate ormai dolci nella memoria collettiva di noi diventati adulti…

La mia vita di ragazzo però si è svolta essenzialmente a Crotone, ed in particolare tra il centro storico, il lungomare e le nuove strade che iniziavano a modellare la nuova città. Campo di giochi e battaglie il degradato Castello, via Risorgimento la strada nobile di Crotone, Corso Vittorio Emanuele, Piazza Duomo e Piazza Vittoria, Piazza Umberto, la città nuova con la centralissima Piazza Pitagora, i portici e via Vittorio Veneto con Piazza Municipio, la stazione e Viale Ferrovia, ma soprattutto via Poggioreale via Tellini via Reggio e Viale Regina Margherita, e il regno incontrastato dei ragazzi la Marina e il Lungomare sia verso il Cimitero che verso il Porto e il cortile dell’unica e prestigiosa Scuola elementare Principe di Piemonte. Ma oggetto di grande ammirazione erano anche i monumenti, davanti ai quali la mia fantasia volava ricostruendo i laboratori e le officine creatrici.

Proprio tra le vie di Crotone cominciò quell’amore adottivo verso la patria di Pitagora, che più avanti negli anni mi sforzai di chiarire a me stesso con un pizzico di nostalgia e rimpianto:

continuo lambiva il mare / a ridosso della strada ferrata / ai piedi di poggi calanchi / e folti cespugli mediterranei // sulla capperina l’antico maniero / odoroso d’incipienti gelsomini / e impreziosito da gialle margherite / il mondo dei nostri giochi… // tutto ritorna nella memoria / nitidi i ricordi delle veloci corse / e i gioiosi capitomboli su carretti / da mani infantili appena sgrossati / giù sempre giù per gli arcigni pendii cittadini, / armati da novelli troiani, / verso le polverose porte scee, già pronti / per rintuzzare il nemico di turno // il cortile della vecchia scuola / s’affacciava sul sacro promontorio / non c’era bisogno di sognare / un mondo oltre il capo // le sirene delle fabbriche oggi solo di protesta / e il profumo di vividi rossi gerani / mi riportano sempre con nostalgia e amore / a quei tempi e a quei luoghi lontani…

Anni difficili ma esaltanti furono quelli del secondo dopoguerra per le famiglie crotonesi, perché, seppur ancora tristi per molti, si presentavano ricchi di prospettive: le industrie presenti garantivano la possibilità di riscattarsi dall’indigenza e di progettare un futuro migliore… Il modello da raggiungere era quello della nascente economia consumistica e i bambini percepivano il nuovo corso anche attraverso le nuove abitudini familiari: mattina di domenica il rito della messa, il pomeriggio il cinema, la sera la passeggiata in piazza e sul corso, con l’appendice del gelato al bar Moka o alla Siciliana, nel periodo estivo. Bastava poco per dare un sorriso a piccoli e adulti e allietarne le lunghe e difficili giornate. Il cinema con la sua magia, in tale contesto, aveva una grossa funzione liberatrice: i films rigorosamente in bianco e nero del filone neorealistico di Paisà e Ladri di biciclette, che descrivevano le precarie condizioni di vita della società postbellica, oppure quelli della commedia italiana con la comicità semplice di Tina Pica e dei fratelli De Filippo, aiutavano gli spettatori col sorriso e la commozione a sopportare meglio le difficili condizioni del quotidiano, proiettando nei personaggi stenti e amarezze ma anche volontà di superarli e stabilendo con essi un rapporto di vero mutuo soccorso. Dopo qualche anno arriveranno anche i film a colori: il primo a Crotone fu La tunica, in occasione dell’inaugurazione del modernissimo cinema Ariston, che si affiancava con prepotenza ai piccoli Supercinema Odeon Mignon e allo stesso Teatro Apollo o alle fresche e ariose Arene Miramare e Mignon.

Da piccoli abbiamo frequentato l’Asilo Regina Margherita, mentre si allacciavano le prime amicizie con i ragazzi del rione, con i quali si condivideva la strada, una vera scuola di vita come sempre. La spiaggia, che da via Osservanza porta al Carmine, zone da tempo abbandonate da monaci osservanti e carmelitani, era il luogo di incontro con coetanei in libertà, con i quali condividere tutti i momenti del tempo libero e i giocattoli costruiti in proprio e i pochi confezionati portati in regalo il giorno della Befana, da esibire con orgoglio dopo l’angosciosa notte trascorsa in attesa e con paura. Ogni minizona aveva il suo gruppo, la banda, come da noi appellata con enfasi ad imitazione dei grandi e dei loro modelli fuorvianti, che rispondeva alle regole e alle dinamiche psicologiche di convivenza e di sopravvivenza: a capo il leader riconosciuto sul campo per carisma e forza, gli altri pares inter pares con deleghe e funzioni stabilite dalla guida indiscussa. All’interno del gruppo, le prime prove di coraggio mai da rifiutare, l’esperienza della prima nauseante sigaretta confezionata con i combusti e amari residui delle cicche, utilissima a volte per allontanare definitivamente il relativo vizio, la continua ricerca di giochi che duravano, nell’arco della giornata, per l’intero tempo della luce solare o quello dell’impazienza e dei timori dei genitori.

I nostri erano giochi semplici, organizzati con modesti oggetti o con materiale di scarto e non più riutilizzabile: con i bottoni e le figurine posti su un piano, che venivano fatti saltare e fatti cadere rigirati per poterli vincere, battendo in modo particolare, detto a pappate, con il palmo della mano; con i tappi delle bibite portati avanti con abili scatti del medio sganciato dal pollice sui lunghi percorsi dei gradoni del Cral Montedison; con le catenelle di materiale plastico o le figurine piazzate su collinette di sabbia e abbattute con gli ostracion di scarto dei cantieri edili; con i strumbi ovvero le trottole, arrotolate dal laccio lanciate e fatte ruotare a velocità notevole e fatte poi saltare sulla mano, per indirizzarle a piacimento per lunghi giochi di abilità che si concludevano con la feroce scheggiatura del perdente; con a mazza e ru sprigghiu, due pezzi di legno di lunghezza diversa lanciati con abilità particolari; e con tutti quegli oggetti di gioco che richiedevano fantasia capacità costruttive abilità motorie e vere progettazioni con regole stabilite democraticamente e come tali anche oggetto nell’applicazione e nell’interpretazione di polemiche infinite. E ancora u carricellu, anche nella sua variante verticale u pattinu, antesignano del moderno skateboard, costruito con assi di legno sagomate fatte scorrere su ruote a cuscinetti a sfera difettosi, non più utilizzati nelle officine, per lunghe spericolate discese senza freni non sempre correggibili nelle curve dall’improbabile volante direzionale; uno monta la luna, il gioco che richiedeva la presenza di almeno dieci ragazzi per completare il percorso fatto di salti per superare gli avversari pronunciando senza errori frasi rituali; i rumorosi cannoncini che utilizzavano come camera di scoppio le vecchie cave chiavi di portoni importanti, e le lunghe partite di calcio sulla spiaggia fino allo sfinimento totale. Ma anche le escursioni nel Cral della Montedison, il nostro castello delle meraviglie, sempre avventurose nel tentativo di evitare il cerbero guardiano e nell’orto della famiglia Messina alla ricerca di frutti e ortaggi stagionali, guardinghi e timorosi di incontrare il giustamente feroce proprietario. Ma il gioco più importante era il gioco alla guerra, anzi guerre vere ingaggiate con le sofisticate armi possibili di allora e confezionate in cucina: per spada il bastone della scopa e per scudo il coperchio della pentola più grande della batteria, parte importante della dote materna, sulla spiaggia come tanti paladini a Roncisvalle in una tenzone pomposamente definita franco-spagnola. Analogie con i giochi dei bambini, che ritornano ciclicamente in ogni epoca, ma a quel tempo ancora non avevamo letto il capolavoro di Molnar. Infine anche il gioco più crudele, inventato con aria innocente ed ingenua da sadici ragazzi, la buca scavata in riva al mare coperta da un foglio di giornale e mimetizzata dalla sabbia rossa dell’arenile, in attesa di assistere da lontano allo spettacolo dello sprofondamento delle povere vittime giustamente incavolatissime, uomini e donne al passeggio serale.

Tutto sa di sacro e di soprannaturale sul promontorio di Capocolonna, dove il tempo sembra abbia bloccato le sue lancette… è il luogo dello spirito/ oasi di pace/ la memoria della grandezza/ e della miseria di Crotone/ la Colonna l’antenna/ che capta i suoni del passato/ e l’atmosfera sacra/ del recinto templare/ ai suoi piedi/ puoi sentire/ la voce di Pitagora/ i colori di Zeusi/ e le belle donne..

Da subito ho stabilito un rapporto di amore con questo magico ed esoterico sito, ponte ideale e culturale tra il mondo classico e quello moderno. Qui ho sentito i primi richiami delle radici greche, l’armonia pitagorica, lo stridore delle armi sotto le mura di Troia, lo spirito di Ulisse ma anche il fascino il sogno e le suggestioni del Gran Tour e dei viaggiatori che lo resero famoso, primi fra tutti Gissing Lear e Douglas.

Qui i Greci eressero all’inizio del V sec., in onore della dea Giunone, ancor prima del Partenone, uno dei più grandi templi, di stile dorico arcaico, luogo di culto, dove le donne più belle della città vi celebravano i sacri riti, famoso per la sua straordinaria bellezza e la ricercatezza degli ornamenti, coperto di tegole di marmo luccicanti al sole, che tentarono di brutto il censore romano Fulvio Flacco e Dionisio il Vecchio. Il Tempio, che poggiava su di un enorme basamento, era dotato di 48 grandi colonne ed era circondato dal recinto sacro. Attorno a questo recinto i Romani invasori aggiunsero un altro muro, detto opus reticulatum, tuttora visibile. Al centro del Tempio troneggiava una colonna in oro, che Annibale, nella sua fuga precipitosa verso Cartagine, tentò invano di trafugare. Il Tempio era decorato con affreschi del celebre Zeusi di Heraclea, pittore ufficiale del sito, il quale per raffigurare Elena prese a modello cinque ragazze di Crotone, famosa nel mondo antico per la proverbiale bellezza delle sue donne. Oggi, sul promontorio, sopravvive all’offesa degli uomini una sola colonna, maestosa e solitaria, tenace sfida alle leggi del tempo… Nella zona doveva sorgere anche la famosa Scuola Italica (?), un solenne edificio in marmo bianco, circondato da giardini sempre in fiore e recante sul frontone d’accesso alcuni versi caratterizzanti lo stile e lo studio pitagorico: Chi non sa quel che deve sapere, è un bruto fra bruti; / Chi non sa più di quel che deve sapere, è un uomo fra i bruti; / Ma chi sa tutto ciò che deve sapere, è un Dio fra gli uomini.

Sullo stesso promontorio una piccola chiesa, dedicata alla Vergine del Capo, simboleggia il passag-gio di culto dal paganesimo al cristianesimo. In essa è presente una copia del quadro originale attribuito a San Luca, invano oggetto di distruttiva attenzione da parte dei Saraceni, gelosamente custodito nel Duomo di Crotone, arricchito da una cornice di argento, rappresentante la Madonna nel sublime atto materno di dare al figlio l’alimento della vita. Il Santuario è meta ogni anno, nella seconda domenica di maggio, di un notturno pellegrinaggio atteso e vivamente partecipato…

Festa di popolo / festa di grande partecipazione. / Ogni anno per un giorno / la Madonna del Capo / compie un grande miracolo, / fa annullare le differenze sociali / riesce a ridurre quelle culturali / si sforza di smorzare quelle comportamentali. / Per un giorno i maleducati intuiscono / che la loro libertà convive / con quella degli altri, / e gli ignoranti hanno il pudore / di non sbandierare arrogante vanagloria / e la convinzione di essere i soli nel giusto. / Per un giorno i superficiali non sono orfani / della capacità di pensare / e di approfondire le conoscenze, / e gli imbecilli non dispiegano gli effetti / della convergenza di tante categorie anodine / insieme nella stessa persona. / Per un giorno i mercanti di parole / riacquistano l’uso della ragione / e il rispetto della verità, / gli arroganti e i presuntuosi / si accorgono degli altri / dei loro diritti e pari dignità. / Per un giorno gli ipocriti / predicano bene / e amano gli uomini come i loro cani, / i sensibili gli intellettuali gli umili / offrono le loro qualità / per innalzare lodi al nome di Maria. / Puntuale ogni anno / festa di popolo / festa di grande partecipazione, / per un giorno tanto atteso / la Madonna del Capo / compie il grande miracolo…

 

I pellegrinaggi della mia infanzia erano collocati in una dimensione prettamente ludica e pagana: noi ragazzi, forse scarsamente o superficialmente preparati all’evento religioso, vivevamo la festa, in una atmosfera gioiosa e ricca di luminarie, che durava l’intero mese di maggio, anticamera già delle vacanze estive, come occasione di divertimento, di baldoria, del primo bagno della stagione calda. Il pellegrinaggio notturno in particolare per noi era sinonimo di scampagnata in gruppo, un pellegrinaggio parallelo a quello ufficiale, non dissimile da quelli odierni per le stesse fasce d’età. Arrivati a Capocolonna si consumava quanto portato da casa, all’ombra della superstite colonna e del masso, a quei tempi ancora presente nel suo instabile precario e misterioso equilibrio, e poi all’assalto, con strategia e destrezza nell’aggirare le lunghe file, dei pochi pullman sgangherati che facevano a pieno carico la spola per tutta la mattinata tra Capocolonna e Crotone. Nella settimana più intensa della festa, tra la seconda e la terza domenica del mese, i pomeriggi erano dedicati alle accattivanti giostre e alla rumorosa fiera,che soddisfacevano i nostri desideri e i nostri sogni colorati

Il gioco insomma riempiva le mie giornate e quelle dei miei compagni di avventura. Giochi prettamente maschili, la separazione dei sessi in questo settore era quasi obbligatorio, solo pochi quelli misti, inventati tramandati e organizzati con gli strumenti poveri del tempo, ma animati dalla nostra spiccata fantasia.

Cambiano i tempi, cambiano i giocattoli, ma l’importanza del gioco nella formazione e crescita dei bambini rimane inalterata, soprattutto quando i bambini si pongono in modo attivo e non lo subiscono solo passivamente.

Il gioco, col suo tempo e il suo spazio, è ritenuto essenziale nella natura infantile; è la gratificazione di un bisogno connaturato all’essere fanciullo e svolge una funzione insostituibile per lo sviluppo psichico, emotivo ed intellettivo. Esso consente di dare una risposta ai suoi bisogni di creatività e di socializzazione, che non sono solo esigenze naturali, ma comportamenti educativi basilari. Nel corso della giornata di un bambino, uno dei momenti più belli è, ed è sempre stato, il gioco. Gli strumenti del gioco, in ogni tempo, sono stati un’immagine dell’epoca in cui venivano prodotti. Un tempo c’era la bambola di pezza, il cerchio di ferro, l’aquilone di carta, la trottola e il triciclo di legno. I giocattoli erano fatti con materiali naturali, la meccanica e l’elettronica non avevano invaso ancora questo campo. Una ricerca in questo campo sarebbe lunga e laboriosa. Tra i giochi di un tempo, di cui pochi si sono tramandati, c’era il gioco della campana, quello con le pietre, il gioco con bastone e bastoncino, la trottola, sopra e sotto, il gioco con il cerchio, il gioco dell’anello, a sbatta muru, a nascondino, a mosca cieca, il gioco con pezzetti di stoffa, alla sedia, l’altalena, il gioco con il cappello, a ruba bandiera, i giochi con le bambole, a tocca ferro, il gioco con le noci o mandorle, a girotondo Oh che bel castello…, gli ambasciatori, corsa con l’uovo, tiro alla fune corsa con i sacchi durante le sagre e le feste paesane. Giochi prettamente femminili erano: il gioco della campana; il gioco con le pietre; il gioco dell’anello; l’altalena; i giochi con la bambola di pezza; gli ambasciatori; il gioco con pezzetto di stoffa; Oh! che bel castello. Giochi maschili invece: il gioco con bastone e bastoncino; la trottola; sopra e sotto; gioco con il cerchio; ruba bandiera; gioco con il cappello; briganti e carabinieri; sbatta muru; il gioco con le noci. Pochi i giochi misti: nascondino, mosca cieca…

Tutte le feste religiose, i riti e le tradizioni diventavano per noi occasione di gioco, che è progetto e successiva realizzazione. Come non ricordare i preparativi per il fuoco di Santa Lucia, l’annuale appuntamento del 13 dicembre, in piena atmosfera natalizia: la raccolta della legna che iniziava già dal 13 novembre precedente, la ricerca dei nascondigli sicuri, per evitare che altri gruppi di ragazzi potessero rubare il prezioso tesoro, la ricerca giornaliera subito dopo aver fatto velocemente e distrattamente i compiti di scuola, e infine la costruzione del grande falò, indifferenti alle condizioni climatiche, ai divieti dei vigili del fuoco e alle minacce dei vigili urbani. Infine il momento tanto atteso: l’accensione della grande catasta di legna, attorno alla quale tutti i ragazzi del quartiere elettrizzati, urlanti e felici, esprimevano la loro prorompente vivacità. C’era poi da consumare il panino imbottito di saporita mortadella, che annualmente veniva offerto per devozione dalla romana, una signora che dalla capitale aveva seguito il marito a Crotone per motivi di lavoro. Alla fine il falò consumatosi dispiegava anche effetti pratici: alcune donne caricavano i loro bracieri, occasione per un giorno di risparmio di preziosa carbonella, altre approfittavano per arrostire patate peperoni o i tipici pomodori locali.

I fuochi preannunciano la fine del buio invernale e vengono costruiti, secondo la tradizione, per far luce a Santa Lucia, che secondo la tradizione viene rappresentata cieca, con gli occhi poggiati su un piatto; nella cultura contadina, religiosità e paganesimo s’intrecciano alla ricerca di buoni auspici. In una società scristianizzata, come quella moderna, là dove sopravvive questo rito ha un significato meno profondo, direi quasi folkloristico, che non affonda nel sentimento religioso popolare, e gli stessi protagonisti sono inconsapevoli di un vissuto importante, come espresso nella mia poesia L’ultimo falò del millennio: “ha bruciato / – scoppiettante – / nella serata fredda ed umida / con i ragazzi costruttori / – tutt’intorno – / felici e saltellanti / custodi gelosi / di un rito antico / che ha i tempi lunghi / della preparazione / inconsapevoli di un vissuto importante/ ha bruciato/ –scoppiettante–/ l’architettonica struttura / progettata da menti ispirate / per l’ultimo falò / del secondo millennio / consumato e disperso / il giorno di Santa Lucia / vissuto nei tanti rioni da cittadini / con trepidante attesa il 13 dicembre / inconsapevoli di un vissuto importante”. Anche in altri centri della provincia vengono rievocate tradizioni legate a Santa Lucia, come ad esempio a Carfizzi. Qui il rito del falò è inserito in un discorso più vasto, che è quello delle fucarine accese nel mese di dicembre. La prima per tradizione viene accesa il giorno di Santa Caterina il 24 novembre, in un rito di attesa del Natale. E’ il primo dei grossi falò che vengono accesi sul sagrato della chiesa di Santa Veneranda, attorno ai quali si ritrovano tutti, i giovani i meno giovani e gli anziani del paese. I successivi: il 5 dicembre in onore di San Nicola, il 7 in onore dell’Immacolata, il 12 per Santa Lucia e il più grande quello della notte di Natale, intorno al quale tutta la comunità attende la nascita del Bambinello. Negli anni passati venivano accesi davanti alle case, dove si raccoglievano le famiglie del rione; oggi quei tanti fuochi son diventati il fuoco del paese.

Anche nei riti pasquali, noi ragazzi riuscivamo a inserirci per festeggiare a modo nostro soprattutto il grande e misterioso evento della Resurrezione: si raccoglievano e si nascondevano i barattoli di latta, soprattutto quelli grandi delle conserve e medi dei pomodori, per costruire poi le glorie lunghi serpenti di latta (i barattoli venivano infilzati ad un lungo filo di ferro o di acciaio, se si era fortunati nella cerca), che venivano trascinati da tutti i quartieri della città fino al sagrato della cattedrale, e battuti energicamente con bastoni di legno per renderli oltremodo rumorosi, al momento in cui le campane annunziavano la resurrezione di Cristo. La consumazione di una poderosa cozzupa, il dolce rituale caratteristico locale del periodo pasquale, concludeva la stancante operazione devozionale, oggi purtroppo scomparsa per l’opposizione di pseudo-esteti del buongusto. Al contrario il rito dei fuochi di S. Lucia resiste ancora in pochi quartieri per l’attaccamento alle tradizioni di poche nostalgiche persone, pur avendo perso i significati di un tempo

In primavera e d’estate ci si trasferiva a ra marina[1], sulla spiaggia e in acqua, adattando i giochi al nuovo terreno e inventandone di altri. Accanto al tradizionale gioco del pallone, diventava gioco tutto ciò che aveva contatto con l’acqua: il nuoto[2] nei diversi stili; i tuffi dal lanternino, che erano anche una prova di coraggio, le gare nelle vasche naturali tra il molo frangiflutti del Lido Kursaal[3] e il molo della Rari Nantes; le sbirciatine sotto gli stabilimenti a mare di Tricoli e Gerace, alla ricerca di qualche modesto nascosto candore o, se fortunati, del frutto proibito delle giovani e riservate donne calate dai paesi del Marchesato a provare con estrema discrezione le gioie del mare, quando si riusciva ad eludere la ferrea sorveglianza dei proprietari; l’ebbrezza del navigare e del giocare a guisa di delfini con a rota i cammiu -la camera d’aria di un grosso mezzo-, che un nostro amico, a bottega ed apprendista presso un gommista, portava già esageratamente gonfia sabato e domenica, attrezzo che sostituiva più che egregiamente gli odierni sofisticati salvagenti; la ricerca tra i bagnanti di personaggi originali, vere sagome o tipi da spiaggia, che diventavano per noi oggetto in genere di scherno e derisione e qualche volta di malcelata o inconfessata invidia e ammirazione. C’era il corteggiatore, che, puntata la vittima di turno, cercava di attirarne l’attenzione con l’esibizione di numeri circensi e natatori; c’era il vanesio, che, convinto di essere un adone, sfilava da mattina a sera, spesso da solo, cercando continuamente di gonfiare muscoli e bicipiti e trattenere ogni minimo segno di pancetta; c’era il portoghese che, in cerca di riscatto o per compensare complessi d’inferiorità, riconoscibile per i modi e il costume liso o sbiadito, s’intrufolava in tutti i lidi, sforzando naturalezza per sfuggire all’occhio arcigno del sig. Gerace o degli altri titolari; c’erano intere famiglie che trasferivano sotto l’ombrellone il rito del pranzo e della cena, coordinato dal capo-famiglia con grazia primitiva e gestito con strategia e piglio militare…

Tutto avveniva, come dice Fabio Macagnino nelle sue canzoni popolari, “cu carma e candelia”…, intesa quest’ultima come un perdere tempo per apprezzarlo meglio; vissuta come ozio, lentezza, fatalismo, accettazione, passività e nostalgia; definita come il top ed elogio della sana e “sacra” indolenza contro ogni forma di violenza; sentita come il godere del far niente insieme agli altri, in condivisione e convivialità…>

 

[1] La “Marina” una volta era costituita da un ampio territorio compreso tra Via Verdogne Via Poggioreale Via San Leonardo e il mare, oggi è ridotta al largo che si forma tra la Discesa Castello Via Verdogne l’inizio di Corso Messina e il Largo Bagno. Il rione è stato scarsamente popolato sino agli anni della seconda guerra mondiale con poche case di contadini, pastori e pescatori che restavano estranei alla città. Il Lungomare ha avuto una regolare sistemazione agli inizi degli anni ’70. Fino agli anni sessanta la spiaggia frequentata nel periodo estivo dai Crotonesi era circoscritta tra il molo Sanità del Porto Vecchio e il Lido Kursal. Il molo era sede di società di nuoto e lo stesso porto era utilizzato come una piscina. Sulla spiaggia e in mare si costruivano i baracchini in legno dalle tipiche colorazioni a strisce verticali e per poche lire si potevano noleggiare costumi da bagno, barchette a remi e “sandalini”.

[2] L’inizio dei bagni richiedeva a noi ragazzi un grosso sacrificio, l’assunzione di un forte purgante, per me l’appuntamento era con l’olio di ricino, obbligatorio e necessario -veniva detto dai genitori- per preparare l’organismo alle nuove variazioni climatiche. Mai capito le motivazioni scientifiche di questo annuale sadico rituale.

[3] Al Lido Kursaal, lo stabilimento balneare per eccellenza delle famiglie, di bimbi e di anziani, ho fatto i bagni da ragazzo e da adulto, portando anche i figli fin quando non hanno reciso -molto presto- il cordone ombelicale portandosi in altri lidi più divertenti. Noi genitori sempre presenti, stesso lido stessa cabina n.73: Non amo ritornare / ogni anno / alla stesso Lido / -ma siamo sempre qui- / e ritrovare le stesse persone. / Le barche a vela / hanno puntato le prue / verso i mari / e le rotte del cielo. / Non amo ritornare / ogni anno / allo stesso Lido / -ma il rito si ripete puntuale- / e fare la conta di chi non c’è più. / Il periscopio è una metafora / della vita / e regola l’orizzonte culturale / della nostra mente ./ Non amo ritornare/ogni anno / allo stesso Lido / -ma il richiamo è pressante- / e accumulare ricordi ed emozioni. / Nel silenzio della calura estiva / la voce del sig. Primerano / – con amplificazione gracidante – / Il bagnino è desiderato / con urgenza in Direzione.

 

carlo ripolo

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