Caro Pitagora…
Caro Pitagora
(ovvero dalla tua maledizione all’abitudinite)
Caro Pitagora, finora mi sono rivolto a te, da buon e convinto pitagorico, sempre con il dovuto rispetto che si porta ad un grande Maestro, riconosciuto tale da tutti e in tutti i tempi.
Nel mio percorso esoterico e nei miei scritti essoterici ho sempre cercato di attualizzare e diffondere, nei limiti concessimi dalle mie capacità, il tuo pensiero ricco di indicazioni etiche, scientifiche e comportamentali. E sforzato di ispirarmi ai modelli di vita da te proposti nella tua scuola ai tuoi talentuosi discepoli. E condiviso anche la tua sofferenza e amarezza, provocata sia dai numeri irrazionali (che hanno sfrangiato i tuoi sistemi perfetti) che dai nemici personali e politici, i quali per bassa invidia hanno tentato anche di screditarti e ucciderti.
Oggi però, con questa lettera, voglio parlarti (se me lo consenti) con tono diverso, istintivo e familiare, per dirti in piena libertà quello che penso su alcune cose che ti riguardano. Seguimi e cerca di capire del mio dire motivazioni e finalità.
Dunque, tu hai ragione ad essere incazzato con i Crotonesi per come ti hanno trattato e per quello che ti hanno fatto. Cose gravissime. E la tua dura reazione giustificabile, che ti ha portato a maledire crotonesi e calabresi.
Ma su tali fatti ti prego di riflettere un po’ e di considerare che anche con Gesù non hanno scherzato. Lo hanno messo in croce (e non solo fisicamente) e ancora oggi da molti è offeso e dileggiato, tanto da far dire a Campanella “se torni in terra, armato vieni, Signore; / ch’altre croci apparècchianti i nemici, / non Turchi, non Giudei, que’ del Tuo regno”. Eppure il Cristo (che in te ha trovato ispirazioni dottrinali) ha perdonato dalla croce (Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno!) e perdona sempre chi riconosce i propri errori e si pente.
Tu al contrario ci hai maledetto e non hai mai voluto ritirare e annullare la maledizione lanciata, mentre eri costretto a fuggire verso Metaponto, lasciando molti fratelli privi di vita tra le fiamme e le macerie della tua casa.
Proprio tu, che hai indicato al mondo il giusto mezzo, la proporzione e la giusta misura nelle cose e nei comportamenti, hai perso l’equilibrio e il buon senso e ti sei lasciato travolgere dagli stessi sentimenti che hanno animato i tuoi avversari e nemici.
Credo che sia colpa della tua maledizione se proprio i nativi di questa terra siano stati scelti per crocifiggere Gesù; credo che sia stata la tua maledizione a rendere la nostra regione terra di forti contraddizioni e paradossi, terra da amare e da odiare, terra madre e matrigna, paziente e senza regole, terra di santi e di delinquenti, terra di geni e di cafoni incivili, terra indecifrabile non solo agli stranieri, ma anche agli stessi calabresi. Credo che tutto ciò che è stato scritto di negativo (da visitatori e viaggiatori) fino ai giorni nostri sui meridionali (e i calabresi in particolare) sia ascrivibile alla tua giusta ma pesante reazione.
Credo ancora che le teorie lombrosiane siano state suggerite dalla tua maledizione; credo che tu ti sia divertito un mondo nel leggere infine il tagliente giudizio della borghesia dell’Italia del Nord (riportato da Antonio Gramsci in “La questione meridionale”) riferito ai meridionali in generale e ai calabresi in particolare:
“Il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’espressione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto”. (Dimenticano gli autori di tale giudizio che concausa di tale situazione è stata la politica coloniale del Nord nei confronti del Sud, mai allentatasi e modificata dalla cosiddetta unità d’Italia del 1861).
Perché tutto l’oro che toccano i calabresi si trasforma in ferro scadente? Perchè lunga è nei meridio-nali l’elaborazione delle frustrazioni, delle amarezze e dei complessi, (solo appena leniti da alcuni strumenti liberatori come i film, i sogni, i romanzi, quando si concludono con la vittoria del giusto e della verità)? Anche in questo credo e sono convinto che ci sia lo zampino della tua maledizione.
Perchè, più che altrove, qui in Calabria è difficile realizzare la conazione, la capacità di mettere le conoscenze necessarie al servizio dell’azione e dei progetti utili e necessari? Come impresa ardua si rivela combattere quotidianamente contro le pastoie e le trincee della burocrazia, sorretta da una legislazione elefantiaca (che permette tutto e il contrario di tutto).
Credo che pensasse anche a te e ai tuoi avversari Umberto Eco, quando parlava della “necessità” e dell’importanza di avere un nemico (e i tuoi avversari ne avevano scelto uno “pesante”) “non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”. Però io sono convinto che capire e inquadrare un problema e prenderne coscienza, significa avere già intrapreso un percorso per risolverlo. Capire ad esempio le motivazioni che hanno portato i tuoi avversari a rivoltarsi contro di te (e tu con la tua intelligenza sei in grado di farlo egregiamente), significa innescare già (per essere le stesse superate) processi e percorsi di conoscentizzazione e di coscientizzazione di valori positivi, i soli che possano esaltare comportamenti e atteggiamenti di condivisione, di compassione e di fratellanza.
Caro Pitagora, credo inoltre che sia stata la tua maledizione a sconvolgere gli equilibri di una comunità, costretta da sempre a spargere semi negativi e a raccogliere, per la legge del karma, frutti altrettanto negativi. E la radice kr non origina più per questa città i potenti verbi di “creare” e “crescere”…
Credo che sia proprio colpa della tua maledizione se la nostra città è da molti gratuitamente maltrattata (con sofferenza di una sparuta minoranza, sensibile ai problemi ambientali e innamorata di questo territorio, come lo sei stato tu per averla scelta a suo tempo come sede per la tua importante scuola); credo anche che sia effetto dei tuoi strali malefici la presenza di ampio disordine, di estesa sporcizia, di diffuso abusivismo e illegalità, di largo degrado. Per non parlare dei quotidiani indecenti spettacoli d’inciviltà: macchine parcheggiate dappertutto (sui marciapiedi, in doppia e tripla fila, davanti agli scivoli dei marciapiedi e nei posti riservati), tali da impedire il passaggio e la sosta dei disabili; attraversamento con il rosso, da parte di incoscienti (che amano sfidare il rischio di provocare incidenti); linciaggio dei pochi rispettosi della segnaletica e del codice della strada, additati come “alieni pericolosi” perché rallentano le corse automobilistiche, che in ogni momento della giornata si svolgono sulle strade cittadine trasformate in vere piste da corsa.
Dovunque in città situazioni di abusivismo: case costruite a dispetto delle più elementari regole edilizie e della salvaguardia del patrimonio archeologico e paesaggistico; venditori in tutti gli angoli delle strade con la merce esposta al sole, alla polvere e agli scarichi delle macchine, senza alcun rispetto delle norme igieniche; cani portati a passeggio privi di museruola e liberi di spargere cacche e urine nelle aiuole, nelle strade, sulla spiaggia e sui marciapiedi; tutti gli spiazzi liberi e le zone accanto ai cassonetti trasformati in discariche a cielo aperto, piene di tutto, frigoriferi cucine divani materiale edilizio vario vetri televisori e tanti altri rifiuti… Con amministratori e vigili urbani assenti, veri fantasmi;mai un controllo serio, mai un provvedimento nei confronti degli sporcaccioni per far rispettare la legge.
E in aggiunta le conseguenze delle bravate notturne dei vandali: auto danneggiate o incendiate; giardinetti distrutti, insieme ai giochi dove si divertono i bambini e alle panchine dove riposano gli anziani stanchi; le cabine telefoniche sfasciate; tutto l’arredo urbano insomma sporcato e saccheggiato. Uno spettacolo indecente. Per non parlare poi delle nuove opere pubbliche, costruite spesso con materiale scadente da costruttori disonesti favoriti dalla mancanza di controlli da parte di chi è preposto a farli, opere che vengono inaugurate con la banda musicale e in pompa magna, ma subito dopo abbandonate a se stesse senza un minimo di cura e manutenzione, per cui in poco tempo diventano inservibili e inutilizzabili. E che dire poi di tutti gli alberi piantati e subito dopo abbandonati al loro destino, senza acqua e costretti a seccare e morire sotto i raggi del cocente sole meridionale. Anche la stranezza di tali comportamenti sono da addebitare secondo me, caro Pitagora, senz’altro alla tua maledizione. Non ci sono altre motivazioni logiche e comprensibili.
Incomplete o parziali mi risultano le analisi e le risultanze degli studiosi (per intenderci, di quelli che dicono di sapere di tutto), che addebitano i comportamenti negativi a tare ereditarie: “la colpa è dei nostri antenati, noi siamo i discendenti di popoli mediterranei, che hanno sviluppato nel loro codice genetico l’individualismo sfrenato e scarso senso civico, che li porta in modo naturale a non sopportare gli altri e a non rispettare le regole che servono ad una comunità per vivere civilmente e serenamente insieme..” Credo fermamente invece che sia stata la tua maledizione, caro Pitagora, a rafforzare caratteri sociali e predisposizioni genetiche, che neppure un intervento divino potrebbe deviare, lasciando senza adeguata risposta la reiterata domanda: “Perché i nostri concittadini non amano la loro città, la distruggono giorno per giorno, non progettano niente per farla crescere e si comportano in modo incivile e irrispettosi dei principi e delle regole dello stare insieme?”
Il responso dei saggi è sempre lo stesso: “Tutto quello che succede è conseguenza della maledizione che Pitagora lanciò contro la città e i suoi ingrati abitanti, allorquando lo costrinsero a fuggire, per evitare di essere ucciso, dopo avergli bruciato la casa e massacrato i compagni. Si, proprio quel Pitagora, che con la sua intelligenza e la sua Scuola, aveva contribuito a far diventare la città grande e importante tanti secoli fa, ma l’invidia e la gelosia di pochi lo avevano costretto ad andare via di notte, inseguito e braccato come una bestia. Una grande maledizione lanciata contro i cittadini del suo tempo, ma anche contro tutti i discendenti e quelli che si erano mostrati ingrati e per nulla riconoscenti. Una maledizione che costringe le persone a vivere nell’ignoranza e quindi nel disordine e nell’inciviltà… E’ difficile toglierla, eliminarla o trasformarla in qualcosa di positivo. Non ci sono talismani, infusi o altri preparati che possano allontanarla o esorcizzarla. Neppure cento chili di sale basterebbero per toglierla…”
Interrogato in merito, un grande saggio, conoscitore dell’animo umano e delle sue contraddizioni, un giorno mi disse convinto e speranzoso: “Si, un tentativo per modificare le cose si può fare… Bisognerebbe sistemare in tutte le piazze, gli incroci e le rotonde della città, ad altezza naturale, statue del grande Pitagora e dei suoi discepoli più famosi (Milone, Alcmeone, Faillo…) e allestire dei pannelli in cui siano riportate le cose più interessanti che questi uomini hanno creato per far diventare la città più importante, più civile, più ricca: la tabellina pitagorica, senza la quale non è possibile fare i calcoli e i conti nella vita di tutti i giorni; il teorema, che permette di conoscere meglio le proprietà dei triangoli rettangoli; le numerose gare vinte ad Olimpia da Milone, osannato e famoso per le sue imprese in tutte le città della Grecia e della Magna Grecia; gli studi di Alcmeo-ne, uno dei primi grandi medici della storia, rivolti alla conoscenza di come funzionano gli organi del corpo umano e che hanno permesso poi notevoli progressi nella ricerca scientifica; il coraggio, la generosità e la coerenza di Faillo, unico magnogreco presente alla battaglia di Salamina. Dinnanzi alle sculture e ai pannelli i cittadini sarebbero costretti così a ricordare la loro storia più bella, più grande e più interessante. Solo così la città potrebbe recuperare la memoria e valorizzare la sua storia. Solo così i cittadini potrebbero sentirsi orgogliosi dei loro antenati e seguire il loro esempio e le loro virtù. Solo così, può darsi, Pitagora farebbe cessare la sua maledizione…”
Pieno di speranza, pensai per qualche giorno che quanto detto fosse la giusta soluzione, fino a quando un giovane liceale del posto, incontrato per caso nell’agorà cittadina, non mi avesse fatto riflettere meglio con le seguenti parole: “Hai visto quanti fannulloni affollano il corso? Hai considerato l’incapacità genetica e strutturale degli amministratori? Chi potrà mai in questa città comatosa, con questa umanità indolente e autolesionista, fare ciò che ha suggerito il saggio? E noi giovani, i soli con idee e passione, ma senza bacchette magiche e potere, cosa possiamo fare con le nostre minute forze?” La risposta è una sola: ritirare la maledizione!
Caro Pitagora, è chiaramente colpa della tua maledizione se in tutte le graduatorie nazionali (ed europee), relative alla qualità della vita e a tutti i parametri economici, sociali e culturali, Crotone e la sua provincia risultano agli ultimi posti; è anche colpa tua se da noi non si fanno opere pubbliche utili (ma solo quelle private, spesso abusive e sempre per speculazione), e quando ne viene iniziata qualcuna, o non viene mai completata oppure viene completata non secondo il progetto iniziali (le famose “varianti per far lievitare i costi). Una maledizione insomma che ha fatto sviluppare anche nel settore edilizio la logica truffaldina dell’interesse privato a discapito di quello collettivo e pubblico, con sperpero di denaro dei contribuenti (favorito da una burocrazia accondiscendente). Per non parlare poi della politica continuamente maltrattata e supportata dal teatrino delle campagne elettorali, con il trito e ritrito copione, sempre lo stesso, fatto di promesse impossibili da mantenere e di progetti difficili da realizzare. Con attori (i politici) sempre gli stessi, che ad ogni tornata sono tesi a mostrare nuove “castità e verginità” e a gestire le clientele -unica interessata novità- con le nuove tecnologie. Mai un consuntivo del loro operato, mai un’autocritica per tutte le inadempienze e le mancanze che hanno ridotto la città in condizioni pietose e incrinato il rapporto fiduciario fra amministratori e cittadini.
Una città degradata, priva spesso anche dei servizi primari, priva di una visione del proprio futuro, dove la tua maledizione ha estirpato dagli animi lo spirito di servizio e l’amore per la propria terra, ed ha sviluppato solo ambizioni sfrenate e interessi personali.
Una città, che dopo il crollo dell’apparato industriale, il cui sito è diventato una landa inquinata e deserta, ancora non è riuscita (e forse mai ci riuscirà) a trovare altri percorsi economici, pur in presenza di notevoli potenzialità.
Una città senza identità, che non si è mai sforzata di trovarne una, dove latita sia cittadinanza attiva che partecipazione, dove i diritti e i meriti vengono calpestati e trasformati in favori e clientelismi.
Una città che sta morendo e che non riesce a gestire neppure i servizi più semplici (raccolta rifiuti, sanità, strade, cimitero…), per incapacità e disorganizzazione.
Una città che ha perso la sua dignità e la memoria della sua antica grandezza, sporca, sciatta, trasandata, stanca, sfinita, letteralmente isolata dal resto della Regione e dall’Italia, per mancanza di strutture viarie moderne.
Una città che deve recuperare l’antica dignità e orgoglio, superare il complesso d’inferiorità (indotto e alimentato da chi ha interesse), con la coscienza di appartenere ad una comunità vasta, con eguali diritti e doveri.
Una città ogni giorno da ricostruire, partendo dal fondo in cui la tua maledizione la spinge continuamente.
Una città, che pur risultando famosa e conosciuta in tutto il mondo soprattutto per la scuola pitagorica, nei tuoi confronti si è dimostrata ingrata e apatica, tanto che non è riuscita nel corso di ventisei secoli a dedicarti, come segno di ringraziamento, neppure uno straccio di monumento (cosa che si fa normalmente anche per piccoli personaggi locali)… Un atteggiamento incomprensibile sia sul piano storico che turistico, mentre altrove si fanno carte false pur di avere qualcosa di simbolico da ostentare e da caratterizzare. Ostinata stupidità, che mortifica una città e fa sorridere i pochi turisti motivati, che ancora si avventurano in queste zone…
Caro Pitagora, è da secoli ormai che la tua maledizione (per uno strano gioco di contrappasso all’ incontrario) ha favorito la tracotanza e l’arroganza dei potenti di turno, tesi solo a curare i propri interessi e ad angariare il popolo, calpestando sistematicamente regole e giustizia. Un tempo in modo evidente, oggi in modo subdolo e ipocrita. Un teatrino continuo, da farsa, senza sbocchi e progettualità, finalizzato solo a mantenere piccole poltrone e piccoli poteri (anche se redditizi) per gestire avidità, pochezza e incapacità; e la gente, non educata alla cittadinanza attiva e non avvezza alla partecipazione diretta e alla reazione indignata, è costretta giornalmente ad assistere impotente e frustrata a spettacoli indecenti e indecorosi.
Come vedi, caro Pitagora, è un quadro veramente drammatico quello descritto, che solo tu puoi modificare, ritirando la pesante maledizione. E’ il tempo di recuperare completamente la tua saggezza, diventata proverbiale (come quella di Salomone) e per la quale sei in eterno famoso. E metterla al servizio di una città, alla quale un tempo hai dato tanto, ma che pur ingrata nel finale, ti ha accolto con favore e ti ha dato la possibilità di sperimentare le tue ipotesi scientifiche e di dare concretezza alle tue idee politiche e formative.
Torniamo a pensare che la personalità e il benessere psico-fisico non sono frutto solo di un percorso virtuoso o di una costruzione intenzionale, ma principalmente e soprattutto di una reazione del singolo agli attacchi che provengono sul piano fisico dai virus e dai batteri e sul piano psicologico dalle fobie, dalle sindromi, dalle paure, dai complessi e dalle schiavitù. Per raggiungere quel “benedetto” equilibrio, sintetizzato mirabilmente da te, caro Pitagora, nella formula Per tutto il meglio è la misura…
Ritira quindi la maledizione, perdona per il male ricevuto, aiuta questa terra a riprendere un percorso di grandezza e civiltà, interrotto bruscamente dagli egoismi e dalle ambizioni. Quelli che amano queste terre, ti saranno riconoscenti in eterno, compreso il sottoscritto, che continua ancora a scrivere il suo amore per questa terra martoriata:
“Non partono più bronzi dall’Esaro / torbido e sonnacchioso, / riposano tanti ancora nei mari / a ridosso di coste sinuose / dalla sabbia fine e policroma. / Solo gli echi di battaglie antiche / risuonano le valli del Bonamico / e lo Stilaro, con in testa Carlomagno, / Agolante e Rolandino, dall’aspro monte / alle mura di Risa, oggi altre guerre / impegnano indigeni e combattenti. / Una colonna solitaria in solitario e / continuo ascolto di comandi divini, / ricarica di energie le genti locali. / Le amo sempre tutte queste terre / che profumano di storia, di gerani e di zagare.
In pace ormai con la morte, che tutto / livella, riposa con i più fidati Alarico, / tra le sponde del fiume bruzio deviato. / Da innumeri e fragili mosaici, tra ruderi / di terme greche e romane, mai qui / curati e ben protetti, il drago di Kaulon, / le Nereidi fattive nel tiaso marino / e i delfini saltellanti di Capo Nao, / mandano da tempo inascoltati e vani / messaggi di civiltà, a gente ignava / con lo sguardo fisso solo sul presente. / Intanto Zaleuco, serio e accigliato, osserva / l’amata terra spogliata della grande madre, / cui si ispirarono grandi artisti e pinakes… / Ma io le amo sempre tutte queste terre / che profumano di storia, di gerani e di zagare.
Inappagato di perfezione, bellezza e armonia, / con misura s’aggira ancora, anima vagante, / il Maestro chiomato, tra antichi ruderi, / alla ricerca da opporre, di una nuova tetraksis, / ai numeri irrazionali e agli esseri tali… / Più a sud, da Stilo, fiero e con sguardo fermo, / un giovane osserva il mare che guarda la Grecia, / a fantasticare inquieto sulla prima incerta visione / di un nuovo mondo da conoscere e rinnovare, / sfocato era ancora il prezzo da pagare alla libertà / e all’autonomia di pensiero: la solitudine umana / e la persecuzione dei potenti di turno… / Non è bella la vita dei pastori: Alvaro mai tornò / al paese natio, dolore grande per una madre afflitta. / Ma io le amo sempre tutte queste terre / che profumano di storia, di gerani e di zagare.
A capo chino i contadini per secoli hanno declinato / solo terreni con sudore da coltivare, animali da accudire, / olive da trasformare, uve da pigiare, materne fattrici / di nettare divino… E bachi da nutrire con foglie di gelsi, / rigate di sangue, e more corvine baciate dal sole… / Ma nei giorni di festa, un po’ l’utopia si realizza e i giganti / diventano reali, il “cavalluccio” saltella scoppiettante, / guidato da vivace musica pizzicante. I ricchi addobbi / delle feste patronali, tra musiche canti e processioni, / danno alle grame giornate il tocco della magia infantile. / Tra chiamate incanti e confrunte, i riti pasquali esalta / ogni voglia di rinascita. Ma il carnevale del riscatto / purtroppo dura poco. Con nostalgia gli arbereshe e / i grecanici continuano a scrutare e fissare l’Oriente. / Io intanto le amo da morire tutte queste terre / che profumano di storia, di gerani e di zagare…”
L’ultimo verso “gridato”, chiusa di un’analisi critica “sussurrata”, evidenzia un concetto chiarissimo, che mi accompagna da sempre:si critica (con dolore ed amarezza)ciò che si ama appassionatamente, tutto l’altro diventa oggetto solo di indifferenza…
Necessaria premessa per dire che forse la presente letterina riflette, come tutte le riflessioni di questo tormentato periodo di pandemia (o forse no, non lo so), le attuali difficoltà a trovare il giusto equilibrio dinnanzi a qualcosa che non è inquadrabile completamente… La nostra, come dice bene l’amico Luigi Dima, con mirabile sintesi, attualmente sembra “una vita estranea alla vita…”
Però l’importante, mi dico spesso, è sforzarsi di gestire le nostre paure (e compagnia similare) e non trasformarle in forme patologiche… per essere pronti dopo a riprendere il camino. a ricucire i rapporti generazionali sbrindellati e valorizzare i nostri patrimoni culturali e morali…
Insisto. Ritira la maledizione, caro Maestro, perdona per il male ricevuto, aiuta questa terra a riprendere un percorso di grandezza e civiltà, interrotto bruscamente dagli egoismi e dalle ambizioni.
Ricorda che sei stato tu a scegliere per fondare la tua scuola Crotone, dove già erano attivi sodalizi medici, ginnici e artistici (Alcmeone, Democede, Milone…), famosi in tutti il mondo greco, e dove anche la popolazione, per equilibrio e sobrio stile di vita, era molto ricettiva alle problematiche etiche e filosofiche.
Hai dimenticato la calorosa accoglienza dei cittadini? Hai dimenticato i tuoi primi incontri separati con gli uomini adulti, con le donne e con i ragazzi? Invitando i primi ad essere seri onesti e sobri, a rispettare i vincoli del matrimonio, a crescere i figli con regole e principi morali; spronando le donne ad evitare il lusso e la frivolezza, e a dedicarsi alla famiglia con saggezza e nel rispetto dei doveri di madri e di mogli; invitando i giovani ad essere ossequiosi dei doveri previsti per la loro età: l’obbedienza, il rispetto per genitori ed anziani, lo studio e l’educazione completa (corpo, intelletto ed anima)?
Ma hai dimenticato soprattutto i risultati ottenuti, sia in campo politico (facendo da guida nel Consiglio dei Mille e in seguito nel più snello Consiglio dei trecento da te istituito, perchè lo Stato mantenesse ordine e armonia contro le tentazioni oligarchiche e le demagogie democratiche) che in quello educativo e formativo (con l’apertura di una Scuola iniziatica e selettiva, molto seguita, basata sull’insegnamento di discipline scientifiche, morali e religiose, con regole rigorose di vita comune). E ti sei lasciato irretire da pochi sobillatori, che non mancano mai in tutte le realtà ed esperienze umane.
Non so cosa dirti altro, se non ripetere fino alla noia l’invito a ritirare la maledizione: quelli che amano queste terre, ti saranno riconoscenti in eterno, compreso il sottoscritto, che continuerà sempre a scrivere il suo amore per questa terra martoriata.
Purtroppo, caro Pitagora, la tua maledizione non è la sola iattura per questo territorio. Ad essa bisogna aggiungere una subdola patologia, detta abitudinite, che rende le persone schiavi volontari, privi di ogni passione per la libertà e pronti a delegare il loro potere ai ciarlatani. Per capire tale concetto, segui il resto della lettera e le riflessioni esposte…
E’ vero che il corso della nostra vita, in percentuale elevata, dipende da noi e dai nostri comportamenti, così come anche modificare abitudini consolidate. Ma non sempre avviene, non essendo operazione semplice e facile “aprire le porte del cambiamento”…
I caratteri ereditari genetici e le predisposizioni individuali (tra i quali le fobie, le sindromi, le paure) insieme ad errate forme educative e a contesti sociali chiusi e provinciali (che sviluppano complessi e schiavitù psicologiche), condizionano per sempre la vita degli individui, dai quali è difficile uscirne o liberarsi, anche quando si prende coscienza.
Secondo me, nonostante la buona volontà personale e la bontà di percorsi liberatori, è difficile rimuoverli definitivamente, senza lasciare traccia… Non c’è maturità e sufficiente saggezza nè applicazione di logica e razionalità che possa diluire e sciogliere tali incrostazioni stimmatiche.
Crediamo di essere liberi, ma non lo siamo affatto. Siamo schiavi di tante cose e situazioni visibili (nel lavoro, nella società e nella vita privata) e tante altre che sfuggono alla nostra conoscenza, ma delle quali bisogna sforzarsi di prendere coscienza. Anche se è impossibile liberarsi completamente di catene ormai forgiate sulle nostre pelli; catene mentali, che guidano i nostri comportamenti, soffocando in ognuno di noi libertà e autonomia;catene che spesso involontariamente si trasmettono con comportamenti ripetitivi da una generazione all’altra…
Però, se non è possibile estirparli, dobbiamo cercare di conviverci in qualche modo. In merito ci soccorre Freud con l’indicazione che non dobbiamo privarci dei nostri complessi, ma arrivare ad un accordo con loro, comprenderli ed evitare che dirigano la nostra condotta…
Il mostro (le catene, che diventano abitudini patologiche) nasce e cresce nell’infanzia e si consolida nell’adolescenza, soprattutto nei contesti sociali, scolastici e familiari dove non è salvaguardata e curata l’autostima dei ragazzi, la crescita armonica della personalità e l’orgoglio identitario dell’appartenenza.
Le lacune caratteriali del singolo e quelle educative del contesto sviluppano una serie infinita di complessi, da quelli d’inferiorità e superiorità a quelle (più subdole) di Edipo, di Elettra, di castrazione e di senso di colpa… O di sindromi più o meno gravi, come la sindrome di Procuste (che colpisce gli incapaci e i meno bravi, invidiosi delle capacità e del talento altrui, pronti sempre a delegittimare i migliori, a sminuirli, a discriminarli, a tormentarli…)
E in aggiunta le tante fobie, piccole o grandi, che ognuno di noi si porta dentro, e che spesso non ci permettono di vivere serenamente o di aspirare a fare cose importanti e a realizzare utili progetti. Veramente tanti sono i complessi, le paure, le fobie, le sindromi e le schiavitù, che ci costringono a vivere sempre in difesa (l’attacco è solo falso e formale, un qualcosa che maschera la nostra fragilità). I trattati di psicologia e di psichiatria sono zeppi di tali patologie; impressionante è il numero, tanto da far venire il dubbio che nella nostra vita non ci sono spazi per una normalità comportamentale e che la ragione, di cui siamo dotati, sia più una dannazione che un dono e una ricchezza, quasi una malattia. Che ci porta a vivere in modo incoerente, abitudinario, contraddittorio e patologico. Mi è capitato di sentire persone lamentarsi della condizione umana ed esaltare -quasi con un pizzico di invidia- quella degli animali, costretti a vivere -beati loro- con regolarità istintiva.
Sono convinto, caro Pitagora, che tutti in qualche modo siamo sfiorati da tali problematiche; l’importante è che non si trasformi divenendo in qualche modo patologica.
Chi non è mai stato sfiorato dal sentimento di simpatia nei confronti di chi opprime, chi non ha mai provato un minimo di soggezione psicologica, da vittima, nei confronti degli oppressori (sindrome di Stoccolma)?
Chi non ha mai provato in periodi diversi sindromi contrastanti, come quella detta di Parigi (delusione rispetto alle aspettative) e quella più famosa di Stendhal (stordito e frastornato dinnanzi alle opere d’arte)?
Chi non si è mai, in particolari momenti della vita, lasciato andare nella cura della propria persona, sia dal punto di vista medico che igienico (sindrome di Diogene)?
Oppure, chi non ha mai avuto paura del mare e di annegare (talassofobia); paura delle altezze e dei luoghi alti; paura dello sporco e della polvere; paura di volare; paura degli spazi aperti o dei luoghi affollati (agorafobia); paura di attraversare le strade; paura dei temporali, dei tuoni e dei fulmini; paura di provare dolore fisico (agliofobia); paura dei gatti (ailurofobia); paura del dolore fisico (algofobia); paura dei ragni; paura degli spazi chiusi, stretti o angusti (claustrofobia); paura di ingrassare;paura dei serpenti;paura, avversione, razzismo verso persone omosessuali, oppure di essere considerato o di diventare omosessuale (omofobia); paura del buio; paura della morte (tanatofobia); paura del numero 13; paura, avversione, razzismo verso stranieri e sconosciuti (xenofobia)?
Chi non è mai stato infine schiavo o dipendente dall’ansia, dal fumo, dall’egoismo, dall’alcol, dall’ira, dalla timidezza…?
Quanto detto mi fa concludere che la personalità e il benessere psico-fisico non sono frutto di un percorso virtuoso o di una costruzione intenzionale, ma principalmente e soprattutto di una reazione del singolo agli attacchi che provengono sul piano fisico dai virus e dai batteri e sul piano psicologico dalle fobie, dalle sindromi, dalle paure, dai complessi e dalle schiavitù. Per liberarci da tutto ciò che diventa “abitudinite” e raggiungere quel “benedetto” equilibrio (mens sana in corpore sano), sintetizzato mirabilmente da Pitagora nella formula Per tutto il meglio è la misura…
E’ da aggiungere che spesso si sente dire (da esperti e da gente comune) che noi siamo quelli che incontriamo (ma anche ciò che ascoltiamo o vediamo o mangiamo…).
Per prendere la giusta distanza anche da questo condizionamento e trasformare la passività in atteggiamento attivo e volontario (noi siamo quelli che vogliamo incontrare), bisogna coscientizzarlo, dopo averlo conosciuto e compreso, e iniziare un cammino spirituale per uscire dall’abitudinaria “caverna schiavizzante” e sgrossare la pietra grezza che è in noi, avendo però dei riferimenti etici precisi e modelli chiari (cosa per niente facile).
Io mi ritengo fortunato avendo trovato modello ed esempio in un illuminato passo della Bibbia ( Libro primo dei Re 3, 2-15), dove si parla di “cuore intelligente”, il solo capace di far trarre continuamente l’ordine dal caos individuale e sociale o di far ristabilire l’equilibrio sempre instabile e messo in discussione da forze negative…; il solo capace di limitare i danni dell’abitudinite, patologia diffusa soprattutto nelle società tecnologicamente avanzate (ma debolissime sul piano psicologico e valoriale)…
Involontariamente, purtroppo, l’abitudine dà valore e patente di “normalità” (in positivo e in nega-tivo) a tutti gli eventi e modelli di vita, senza scavare nel merito. Come il tentativo continuo (che si è ripetuto diverse volte nel corso della storia umana e in modo eclatante) da parte dei mediocri di delegittimare e distruggere i talenti e i migliori, per invidia e per affermare personali ambizioni.
Diceva Michel de Montaigne che “l’abitudine ci nasconde il vero aspetto delle cose”; aggiungeva Etienne de La Boetie che “purtroppo l’abitudine fa schiavi volontari e sopisce la voglia di libertà”, vanificando il principio che “la forza del potere sta in chi lo subisce, non in chi lo esercita; basta negargli l’assenso per essere di nuovo liberi e non servirlo più”.
Proprio qualcosa di simile sta avvenendo in Calabria (e in Italia), una vera sindrome che impedisce sia che si formi una classe politica capace che una massa di cittadini attivi e responsabili. Conseguenza: una regione (e una nazione) bloccata nella crescita, che non riesce ad esprimere al meglio tutte le ottime potenzialità. Un circolo vizioso, che si perpetua senza possibilità di trasformarlo in circolo virtuoso.
Da quanto detto, caro Pitagora, si evince che non basta solo un “vaccino” per sconfiggere le patologie fisiche e psicologiche. L’uomo è una piccolissima parte dell’universo, nonostante abbia la presunzione di esserne il protagonista principale e il regista più importante. Anche se è una “canna pensante” (Pascal), che piegandosi ha capacità di adattamento, basta un’inezia per farlo soccombere (esattamente come tutto ciò che respira in natura), nonostante pensi che la sua tecnologia possa dominare su tutto e risolvere tutte le problematiche. Solo una riflessione seria sul vero senso da dare alla vita, può aiutare l’uomo a raggiungere il giusto equilibrio fra la sua naturale impotenza e la spocchiosa arroganza, per limitare le sofferenze e le angosce.
Illuminanti in merito il pensiero e le parole di alcuni antichi filosofi (ma di sorprendente attualità): “la medicina guarisce le malattie del corpo, mentre la saggezza libera l’anima dalle sofferenze” (Democrito); “Il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio” (Ippocrate); “Il medico deve trattare il malato anche secondo logica ed etica” (Galeno). Più concreto il pensiero di Epicuro (ripreso e sviluppato sino ai giorni nostri da tanti filosofi e poeti), che concede all’uomo, all’interno dell’ instabilità degli eventi naturali, solo la possibilità di evitare il dolore e ricercare il piacere (nella sua accezione di assenza del dolore stesso).
C’è bisogno oggi, secondo me, di recuperare il rapporto simbiotico tra medicina e filosofia (messo in crisi negli ultimi secoli sia dall’ integralismo religioso che dall’arroganza tecnologica), se l’obiettivo di ogni trattamento sanitario vuole diventare effettivamente la persona nella sua totalità, con le sue fragilità e le sue sensibilità. Anche le moderne pandemie (come quella che stiamo vivendo attualmente) vanno affrontate con tale spirito, dando alla medicina (e ai suoi notevoli progressi) la possibilità di essere supportata dal buonsenso filosofico e psicologico, ed evitare “il rischio che tale emergenza possa far vacillare seriamente il nostro modo di vivere”. A differenza delle tante tramandate dalla storia e dalla letteratura, che hanno messo in crisi i valori morali sia degli individui che delle istituzioni: la peste che colpì Firenze (e l’Europa) nel 1348, raccontata dal Boccaccio; la peste del 1630, narrata da Manzoni; la peste di Atene o quella descritta da Camus, con sottile analisi: “Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio”.
Vero è che, se il cambiamento è una porta che si apre soltanto dall’interno (come hai sempre affermato anche tu, caro Pitagora), solo l’uomo è responsabile della sua vita e della sua felicità.
Ogni volta che viene sgrossata la “pietra” grezza e/o levigata e si utilizza nei percorsi di vita il buon senso biblico e la misura pitagorica, gli uomini prendono piena coscienza dei loro limiti e possibilità.
Ogni volta che gli uomini accendono un “cerino di dialogo”, la terra si illumina, l’umanità cresce e Dio sorride contento.
Cosa serve per accendere tali cerini? – chiedono gli uomini di buona volontà. Solo tre cose: un po’ di curiosità, tanto amore e un pizzico di cuore intelligente…
Intanto ogni giorno mi ritrovo ad osservare due piccole erme di Ippocrate e Pitagora, poste sulla mia scrivania (accanto al computer), in atteggiamento, a riposo, accigliato e serio, ma che ad ogni telefonata cambiano espressione…
Il primo piange (e a volte a dirotto) ogni volta che sente parlare di malasanità, di corruzione, disorganizzazione e servizi medici scadenti. Ma ride felice per chi porta rispetto e segue il suo giuramento…
Anche il secondo diventa triste e piangente ogni volta che sente traditi i principi etici della convivenza umana, sostituiti oggi da violenza gratuita, ambizione sfrenata di potere e danaro. Ma sfodera, contento, un bel sorriso per chi segue i “comandamenti” del versi aurei, il buon senso e la giusta misura, col rammarico che pochi ormai apprezzano il suo pensiero e la sua scuola…
Purtroppo con amarezza devo confessare che li vedo sempre tristi, in lacrime e addolorati, in quest’ultimo periodo definito e declinato da ipocrisia, superficialità, contrasti, solitudine, egoismi, pregiudizi, odio, arroganza, cattiveria e provincialismo.
“Un profeta non è disprezzato che nella sua patria e in casa sua“, recita amaramente il Vangelo di Matteo. E non sempre la mente e il cuore sono in sintonia…
Ippocrate e Pitagora non ridono più, neppure quando cerco di consolarli (e consolarmi) con la certezza dei luminosi e illuminati tempi che verranno, i cui segni sono sotto gli occhi di tutti (come grande pietosa bugia)…
Da “Epistolario” di Carlo Ripolo